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Intervento di Elia Montani, presidente della conferenza degli studenti, in occasione della cerimonia di inaugurazione dell’anno accademico 2022/2023

presso l’Università degli studi di Milano.

Siamo pronti al “salto d’epoca” che stiamo attraversando? Abbiamo centrato o mancato l’appuntamento con un nuovo inizio post-pandemico in cui abbiamo sperato? Il nostro, forse più di qualunque altro, è un tempo di transizioni, di trasformazioni da affrontare, da guidare. Transizione ecologica, transizione digitale, e poi una guerra a pochi chilometri da noi che non accenna ad una tregua e a cui consegue uno scenario geopolitico sempre più caratterizzato da incertezza e tensione. Incertezza e tensione che non sono soltanto fuori di noi, all’esterno, nel mondo che ci circonda, ma anche in noi, e colpiscono soprattutto i giovani. Si pensi a ciò che recenti fatti tragici hanno tristemente documentato, e a quanti tra noi stanno affrontando situazioni di malessere. L’instabilità di questo strano tempo, globale e accelerato, interpella con urgenza la nostra esistenza. Che cosa ci è chiesto di essere? Che cosa, l’Università, chiede di essere ad uno studente in procinto di intraprendere il proprio percorso di studio?

 

A coloro che frequentano le Università è sempre più spesso chiesto di essere degli stakeholders, dei portatori di interessi funzionali, o ancora, dei semplici utenti-consumatori del bene conoscenza. Ne consegue un evidente privilegio assegnato ad un sapere immediatamente utile, spendibile, a scapito, però, di una reale formazione. Con questo non si vuol dire che l’Università non debba preparare al mondo del lavoro o contribuire alle sorti dell’occupazione e dell’economia; l’importanza di questo ruolo e del rapporto tra l’Università e il mondo del lavoro è fuori discussione. Si vuole però mettere in luce la parzialità di una prospettiva di questo tipo, che necessita di essere inscritta all’interno di un orizzonte più ampio, perché compito dell’Università può essere anche quello di elaborare i paradigmi umani e sociali del futuro.

 

E dunque, l’instabilità di questo strano tempo, globale e accelerato, interpella anche l’Università: quale scopo ha l’Università? E più profondamente, quale scopo ha rispetto alla società, alla democrazia, nella costruzione della pace?

 

In un periodo in cui sembrano sbiadite le direttrici tradizionali del sistema universitario, assistiamo all’acquisizione, da parte di fondi di finanziamento esteri, di università telematiche, le stesse che, incomprensibilmente, inseguiamo in materia di didattica e che, parallelamente alla struttura universitaria, si stanno costituendo come organismo a sé stante, senza che però ci si interroghi sulle conseguenze di ciò. Come sarebbe più proficuo utilizzare gli strumenti che la pandemia ci ha lasciato in dote, per preservare e perpetuare lo scopo dell’Università. Ma ancora, qual è lo scopo dell’Università?

 

È questa la domanda da riguadagnare, perché porsela significa interrogarsi su come far fronte alle grandi sfide che ci attendono. Questa domanda è però da riguadagnare perché ha smesso di essere parte del dibattito pubblico, e, ancor più gravemente, delle riflessioni politiche. Si constata infatti, nel sistema universitario, un atteggiamento che potremmo definire reattivo, di risposta non meditata. Si pensi alla cosiddetta terza missione, che attraverso i meccanismi di valutazione ANVUR è entrata a far parte delle funzioni dell’Università, ancorché, di essa, non si parli né nella riforma Gelmini né in alcuna altra riforma. Ma si pensi anche al ruolo dei docenti, ormai più burocrati che maestri, a causa di un’attività didattica che pesa sempre meno in sede di distribuzione di finanziamenti e di progressione di carriera. Con ciò non si vuole demonizzare quell’apparato di meccanismi che la struttura universitaria adotta e di cui si riconosce la decisività per le sorti del Paese. Il contributo di questo intervento vuole piuttosto essere la richiesta che l’Università, e di conseguenza studentesse e studenti, tornino ad essere considerati non come coloro che subiscono le transizioni e i paradigmi ma come coloro che sono chiamati a guidarli, a dettarne la strada. È perciò giunto il momento di ricomprendere quale sia la dimensione fondante dell’Università e quali sono, invece, le dimensioni derivate.

 

La missione dell’Università è la persona, è la persona al centro della didattica, della ricerca e della terza missione. È la ricerca umanistica, come ha detto Ivano Dionigi, “intesa come cura del pensiero dell’uomo e sull’uomo, la struttura dura, l’hardware che fa girare i programmi dei saperi scientifici. Tutto il resto è software”. E se a permettere l’elaborazione dei paradigmi umani e sociali è quel pensiero che pone l’uomo al centro della riflessione, la missione dell’Università è la maturazione della persona, la costruzione di un soggetto consapevole, critico e creativo. È questo, infatti, il perno fondamentale e necessario di ogni contesto sociale, del futuro di ogni popolo, il fattore di ogni autentico progresso – per usare una parola spesso abusata. Se la missione dell’Università è la maturazione della persona, occorre affermare che non si può maturare da soli: si cresce attraverso le relazioni, se, cioè, si è immersi in contesti umani positivi e stimolanti.

Ed è la natura stessa della ricerca e del sapere a richiamarci a ciò: la conoscenza diviene progresso se continuamente alimentata e rinnovata, e questo può accadere solo nello scambio e nella comunicazione, che sono in grado di rendere il sapere ogni volta evento nuovo, elementi senza i quali la conoscenza non potrebbe progredire e finirebbe per schiacciarsi sulla mera erogazione di un contenuto.

 

La persona, dunque, e la persona nelle sue relazioni: è questa la missione dell’Università.

Ma allora, il counseling psicologico e il bonus psicologo, per quanto essenziali – e qui mi rivolgo anche a tanti che trasformano vicende tragiche in battaglie politiche – non bastano, sono una risposta parziale ad un’esigenza molto più profonda, che non può esaurirsi nella richiesta di una - pur necessaria - assistenza terapeutica. E se la missione dell’Università è la persona nelle sue relazioni, il bonus psicologo e il counseling psicologico sono un segnale positivo ma non bastano, poiché è necessario reimpostare il sistema universitario a partire da coloro che abitano le Università, perché anche laddove ci fossero sempre un counseling psicologico e un bonus psicologo, non ci sentiremmo accompagnati nel nostro percorso, perché un accompagnamento è tale se è strutturale, e non se è un semplice sostegno che, per quanto auspicabile, rischia di sfociare in una riduttiva medicalizzazione dell’uomo. Questo significa, da un lato, che non si possono ridurre le istanze più profonde della persona al corrispettivo di un sistema di welfare, e dall’altro, che il sistema universitario può, tuttavia, decidere di mettere al centro tali istanze.

 

Come, dunque, accompagnare davvero studentesse e studenti? Offrendo le condizioni materiali e concrete perché lo scambio e la dimensione comunicativa tornino ad essere il motore della struttura universitaria. Fornendo luoghi e spazi di rapporto, attuando misure che permettano allo studente di frequentare il contesto dell’Università. E dunque, non si può sfuggire alla responsabilità che l’Università, e non solo, ha nel trovare soluzioni, e nell’immediato, e nel lungo periodo, per contrastare la crisi abitativa che a Milano, per un giovane, è diventata insostenibile.

 

Perché è solo ritornando a mettere al centro la persona che, all’angosciosa domanda: “che cosa ci è chiesto di essere”, potremo tornare a rispondere con protagonismo e con uno sguardo che non veda il futuro come un macigno ma piuttosto come quel tempo che possiamo edificare e far nostro. Ed è solo formando soggetti protagonisti e culturalmente critici che l’Università potrà realmente dare un contributo alla società, alla democrazia ed alla costruzione della pace, perché società, democrazia e pace non potranno mai prescindere dalla persona, e perché il modo con cui l’Università può realmente avere un’incidenza sul mondo sta nel contributo educativo che dà a coloro che il mondo, tra poco, dovranno costruirlo.

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