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EMERGENZA UCRAINA

Negli ultimi giorni le vicende ucraine assorbono gran parte delle conversazioni e da ogni parte si leva una selva di commenti, analisi, osservazioni. La facilità con cui ciascuno si pronuncia in giudizi storici e politici ricorda a tratti le prime settimane dello scoppio della pandemia, quando dalle considerazioni di medici e scienziati si cercava disperatamente di strappare delle risposte. Ora la guerra ha preso il posto della malattia, ma molte cose non cambiano: si cerca di afferrare dai giudizi degli esperti il bandolo di una matassa inestricabile. Congetture e analisi che intendono trovare colpevoli, offrire spiegazioni razionali a ogni evenienza della storia, non sgombrano la mente da un’ultima amarezza: che senso ha tutto questo? La mattina del 24 febbraio, prima che l’abitudine riprendesse il sopravvento, questo interrogativo ha bruciato per qualche istante, portando con sé una forma di strana paralisi: che valore hanno le nostre piccole vicende quotidiane, quando tutto potrebbe essere spazzato via in un istante? L’unico potere sembra quello di chi controlla gli eserciti e i capitali. Così l’impotenza nostra, di persone normali, sembra condannarci a un’ultima insignificanza.

In questo clima una ragazza che studia nella mia università mi propone di partecipare a un’iniziativa per portare in Italia alcune persone in fuga dalla città di Kharkov: si tratta di Emmaus, una ONG che si occupa di accompagnare giovani orfani o disabili nel trovare una strada per sé. È domenica mattina, e la partenza è prevista per le 15.00: non conosco nessuno degli altri membri della comitiva e ho già preso degli impegni per la giornata, ma fin da subito la cosa mi appare come un’occasione imperdibile per impegnare in una circostanza concreta la mia domanda: cosa c’entra ciò che accade nella storia del mondo con la mia storia particolare? Così, dopo qualche telefonata per capire meglio di cosa si tratta, decido di partire senza sapere bene a cosa sarei andato incontro. Il viaggio si rivela più lungo del previsto, e dopo due giorni di auto tra Slovenia, Ungheria e Slovacchia, ci troviamo sul confine ucraino. C’è un primo punto di raccolta a circa cinque chilometri dalla frontiera: i militari ci impediscono di proseguire in macchina. Concludiamo il nostro viaggio a piedi, raggiungendo il punto dove culmina la lunga coda che, dopo più di quarantott’ore di attesa, permette di uscire dal paese.

Dalla nostra posizione possiamo solo intravedere l’interminabile fila di auto ammassate in attesa. Alcuni escono in macchina, altri a piedi: è come una lenta e interminabile emorragia, una via crucis che dura ormai da giorni e che dà un volto e una carne a coloro su cui si imprime il segno del delirio dei potenti. I bilanci e le analisi dei giorni precedenti avevano saputo anestetizzare, almeno in parte, un dolore che riesplode di fronte a quei volti stanchi: volti di bambini che varcano la frontiera con la faccia stremata e uno zainetto sulle spalle, alcuni stringono al petto un peluche o una bambola. Volti di madri che hanno dovuto abbandonare la propria casa e i propri mariti, madri che non sanno che ne sarà di loro e dei loro figli.

La polizia slovacca esegue i controlli di frontiera con una certa lentezza, forse come forma di deterrenza per far desistere questa marea di profughi dalla volontà di passare da quel confine: ultimo capillare del grande gioco degli interessi, dell’ennesima strategia che queste persone, in fuga da una guerra che non hanno voluto, devono scontare.

Appena dopo la linea del confine alcuni volontari hanno allestito un banchetto per offrire un primo supporto a chi arriva: qualcosa da bere e da mangiare prima di essere spostati al punto di raccolta. Tra loro ci sono Stefania e Jan, due giovani slovacchi. Sono sposati da tre anni, lei è credente, lui no. Hanno chiesto un permesso dal lavoro e tutti i giorni fanno diverse ore di macchina per venire ad offrire il loro aiuto. Ci vengono gratis: ospitano già tre famiglie ucraine in casa loro, e quel giorno sono in attesa di un’altra persona, mai vista prima, cui offriranno ospitalità. Fin dalle prime ore del mattino sono all’opera: lui prende i bagagli a chi arriva, lei offre del cibo e si prende cura di tutti per come può. C’è anche un’anziana signora che, con fare militaresco, cerca di smistare le persone nei pulmini. Ha la pettorina della Caritas e con il rossetto e gli orecchini d’oro sembra essersi preparata per un appuntamento importante. Ci spiegano che non è stato allestito un campo profughi: per ora quanti non hanno una meta vengono accolti dalla popolazione.

Tra le facce grigie di stanchezza e di malinconia di chi arriva, i volti arcigni dei soldati (che poi non resistono e si mettono ad aiutare anche loro), Stefania e Jan sono una luce: nelle loro facce si vede scoppiare la vita di chi trova la propria gioia nel mettersi al servizio dell’altro, chiunque esso sia. È strano, perché di loro i giornali non parlano: nessuno racconta questa tenace e silenziosa storia di bene che continua a operare nelle pieghe della grande storia. Nessuno ne parla, eppure sono loro il vero evento, la vera notizia, l’unico argine alla logica distruttiva del potere: il loro fare, così apparentemente semplice, è denso di una percezione profonda del valore dell’umano. È quando i popoli diventano masse e numeri, le persone meri ostacoli o strumenti per il perseguimento di fini “superiori”, che prende campo la violenza: la violenza di stato, o la violenza quotidiana che ciascuno di noi subisce o infligge. Questi sconosciuti volontari rappresentano un manifesto politico rispetto a cui ciascuno può prendere posizione in ogni momento: i loro gesti cercano il massimo successo non nella sopraffazione, ma nell’incontro, non professano un bene comune appena come media di interessi che presto o tardi si dovranno risolvere nel conflitto, ma richiamano alla natura organica della società che vive come un corpo, in cui il guadagno di ciascun membro incrementa il guadagno del tutto.

Dopo alcune ore di attesa abbiamo recuperato i nostri amici e siamo riusciti a tornare a casa. Sono tornato più sereno, meno ansioso di trovare le risposte che cerco sui giornali o sui bollettini quotidiani. Non sarà l’analisi più acuta o il bilancio più completo a debellare la guerra, e nemmeno a offrire un orizzonte di senso in questo momento grave per la storia del mondo, ma il moltiplicarsi di persone che documentano con la loro vita la positività di ogni esistenza: questa è una partita in cui ciascuno è protagonista.

Grazie Stefania, grazie Jan, grazie a tutto l’esercito di bene che in questi giorni si sta silenziosamente prodigando perché il mondo non smarrisca il suo volto umano.  Nei libri di storia non ci saranno i vostri nomi, ci saranno quelli di Putin e di Biden, dei grandi potenti della terra, ma il vero potere si comunica nella vostra magnanimità. Grazie: siete la ragione, e dunque la forza, della nostra speranza.

 

 

Guglielmo Mina

Studente di filosofia all’università Statale di Milano

Presidente del Coordinamento Liste per il Diritto allo Studio - CLDS

Rappresentante degli studenti presso il Consiglio di Amministrazione dell’Università degli Studi di Milano - La Statale

Presidente della Conferenza degli Studenti dell’Università degli Studi di Milano - La Statale

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